È difficile per me spiegare a parole la gioia con cui ho accolto la proposta di presentare “Il coraggio della felicità” a Colobraro, e non solo per l’efficienza della consigliera Concetta Sarlo, una giovane colobrarese che sin dall’inizio ha saputo organizzare l’evento con la massima efficienza e professionalità, ma perché si tratta nientedimeno che di COLOBARO, il paese innominabile!

Mi sono sempre chiesta come facessero gli abitanti a viverci, e a dire agli altri la loro provenienza sapendo che sarebbero stati tenuti a distanza.

Non credo che esista un altro caso al mondo in cui un intero paese subisca la maledizione di una fama così brutale quanto ingiusta: portare iella!

Tutti conosciamo la storia crudele di Mia Martini, tutti riusciamo ad essere empatici con la grande artista, soprattutto da quando è passata a miglior vita, perché se ne vanno sempre i migliori. Nessuno riesce a fare niente quando il problema è vicino, tangibile e concretamente evidente. Come quello della terribile sorte toccata ai colobraresi, gente per bene, come chiunque altro al mondo, diventata di colpo innominabile, intoccabile senza alcuna colpa.

Nella mia infanzia e adolescenza sapevo, come tutti i lucani, che quel paese non andava mai nominato, e se proprio era necessario si doveva dire QUEL PAESE, e anche in questo caso partivano i riti apotropaici più osceni soprattutto da parte di uomini di qualunque età che, per allontanare la iella, si toccavano le parti basse.

Una pazzia collettiva!

Una volta chiesi perché quel paese fosse innominabile e conobbi una storia di un lampadario che sarebbe caduto in un salone dopo le parole pronunciate dal podestà di Colobraro, quindi era del tutto evidente che non solo lui portava sfortuna, come dimostrava scientificamente la caduta del lampadario, ma, con un articolato sillogismo, tutti gli abitanti di quel paese erano degli iettatori da cui stare alla larga.

Mi domandavo allora come facessero i ragazzi della mia età che erano nati a Colobraro ad andare a scuola in città, come facevo io, senza poter dire da dove venissero, e mi sembrava una cosa straziante, e tuttavia io stessa per non offendere la sensibilità degli ascoltatori non lo ho mai nominato in pubblico ma ho sempre detto Quel Paese: tanto leggero è il male, non costa davvero nulla, una risata, un’occhiata, un paio di corna e passa la paura, fino a che non tocca a noi.

Quando un’ostetrica in ospedale deve accompagnare due partorienti in sala parto ma una delle due si rifiuta di entrare in ascensore, perché l’altra viene da quel paese, quando i ragazzi che vanno all’università devono inventarsi un altro luogo di origine se malauguratamente incontrano dei lucani per evitare l’isolamento, be’ allora non è più uno scherzo, una facezia, una piccola cosa: è un delitto che può ammazzare le persone!

La diffamazione è querelabile, ma come può un paese intero denunciare una vergognosa maldicenza? Come possono farlo i suoi abitanti che sono nel frattempo impegnati a mentire sulla loro provenienza?

Dopo 70 anni di oppressioni, i colobraresi hanno avuto un’idea geniale: voi ci evitate, ci isolate? Noi ci mostriamo al mondo e la vostra maledizione diventerà la nostra ricchezza: la vostra condanna farà la nostra fortuna!

I colobraresi dal 2011 si mostrano al modo con uno spettacolo corale piacevolissimo che si svolge in tutto il borgo: “Sogno di una notte a quel paese”, attraverso il quale gli spettori sono trasportati nella storia di questo paesino, della sua maledizione, ed inevitabilmente riescono ad empatizzare con gli abitanti del posto, meno con chi ha creato ad arte  la leggenda, anche se si tratta di personaggi illustri e studiosi importanti.

Io stessa ci sono stata per la prima volta solo dopo i 40 anni, ho voluto infrangere il tabù proprio per assistere allo spettacolo, non mi è accaduto nulla, nessuna sventura mi ha colpito se non quelle che capitano quotidianamente a tutti i viventi.

Mi piace Colobraro e soprattutto i suoi abitanti perché sono l’emblema della sopravvivenza in un posto ostile, sono loro i veri resilienti da prima che questa parola venisse coniata ed abusata in ogni dove, sono come quelle piante che vivono nel deserto, che sembrano messe lì da un dio dispettoso che aspetta solo di vederle morire, ma loro ad un certo punto fanno sbocciare i loro fiori, i più belli e variopinti.

Questo è Colobraro: una Rosa nel deserto.

E anche se l’insegna è la più piccola che possiate mai trovare come indicazione stradale (non può essere un caso!), centinaia di turisti ormai da 15 anni riescono a trovare la strada x assistere felici al sogno di una notte a quel paese, e acquistare oggetti scaramantici doc.

Spero davvero che anche noi lucani della mia generazione riusciamo definitivamente a superare l’ignominiosa pratica dei riti apotropaici e riusciamo finalmente ad urlare davanti a tutti CO LO BRA RO!

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