Il bianco, il nero e il cortocircuito.

La prima volta che misi piede in Africa fu in Egitto. Ero una ragazzina.

Già stordita dalla meraviglia delle piramidi e del Nilo, mi portarono a visitare un villaggio nubiano.

Del villaggio non ricordo nulla perché all’ingresso fui attorniata da decine di bambini con le braccia tese che chiedevano qualcosa. Non ero pronta per quello e, una volta finite le caramelle, rimasi pietrificata per pochi interminabili minuti.  Qualcuno mi prese e mi allontanò da lì.

Dopo tanti anni, in un villaggio rurale in Zambia ho vissuto un’esperienza simile.

Mutatis mutandis non sono più una ragazzina e ho visto un po’ il mondo, ma le sensazioni piacevoli vissute nell’osservare i bambini a scuola che cantavano per noi o quelli che nel villaggio giocavano gioiosi passandosi una palla di stracci, si sono piano piano affievolite lasciando il posto ad un disagio irrazionale nel vedere i bambini che chiedevano biscotti o litigavano su chi dovesse darci la mano.

Non hanno mai visto un bianco, quindi perdonateli se vi toccheranno, ci aveva detto il nostro giovane gentilissimo accompagnatore. Ma come non hanno mai visto un bianco? In un posto così turistico? E perché gli alunni ci mostrano tutto quello che hanno imparato, come quando nelle nostre antiche classi di scuola elementare veniva a farci visita l’ispettore governativo? E perché il pomeriggio al mercato, lo stesso accompagnatore, pretende di portare lui le buste di quello che ho comprato?

Ho razionalizzato il disagio e ho capito da cosa è provocato: ancora ci sentiamo autorizzati ad andare in Africa con l’arroganza di chi può permettersi di comprare ogni cosa, anche il sorriso di un bambino?

Mi colpisce particolarmente una scena: vedo una bambina stesa per terra intenta a giocare da sola mentre gli altri fanno a gara a chi debba stare vicino all’uomo bianco, mi piace moltissimo questo gesto di autonomia, quindi mi avvicino e la fotografo, ma, non appena se ne accorgono, tutti gli altri si mettono nella stessa posa di fronte all’obiettivo. Ma che diamine! Di quale ingranaggio sto facendo parte? Questi bambini dovrebbero essere a scuola e non a mostrarsi a noi bianchi mollicci che vogliamo portare a casa un ricordo, questi bambini non sono denutriti, non mi sembra abbiano fame, non hanno bisogno di elemosinare dall’uomo bianco per mangiare, ma lo fanno. Ecco, è questa la causa del mio disagio, non ho intenzione di cambiare il mondo ma viaggio per cambiare me stessa e la visita a questo villaggio mi ha aiutato a vedere l’Africa e noi stessi da una prospettiva diversa: aiutiamoli a casa loro si urla da più parti, bene, ma come, così? Rafforzando in loro l’idea di inferiorità?

Le persone di questi villaggi lavorano nei resort di lusso, gestiti dai bianchi, o nelle enormi piantagioni di banane, anch’esse di proprietà dei bianchi. Al mercato comprano gli abiti dismessi da noi. I bambini vanno a scuola se qualche uomo bianco la crea per loro.

Possibile che solo io veda il corto circuito?

A scuola ci sono tornata da sola il giorno dopo e ho stretto amicizia con le maestre con cui mi sento ancora, vivaddio i bambini sono rimasti a giocare nella sabbia, ignorandomi beatamente.

Era assente Grace, la piccola, meravigliosa Grace che il giorno prima aveva avuto paura di noi e si era rifiutata di cantare con gli altri.

Coraggio Grace, resta sempre così!

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